lunedì 26 gennaio 2009

Monsignor Lefebvre? Un grande uomo di Chiesa ,custode della vera dottrina.

Intervista a Roberto Gervaso

di Bruno Volpe
PONTIFEX.ROMA.IT

La avverto, io sono un laico e non credente, ma uno storico onesto”, anticipa Roberto Gervaso. Meglio così, la sua testimonianza risulta ancor più importante. Dunque Gervaso, con un gesto unilaterale di carità e misericordia, Papa Benedetto XVI, ha ritirato la scomunica ai quattro Vescovi ordinati da Monsignor Marcelle Lefebvre. Lei come lo commenta?: “ sono favorevole al ritiro. E cerco anche di spiegare il motivo. Da un punto di vista formale e del diritto canonico Giovanni Paolo II non aveva scelta. Ma ritengo che storicamente Lefebvre avesse ragione, in quanto non è pensabile relegare la tradizione della Chiesa in un angolo come roba vecchia. Lefebvre, ma questo la solita retorica non lo tollera, dal suo punto di vista, fu un grande uomo di Chiesa. Ritengo che sia assurdo scomunicare chi rappresenta l’anima del cattolicesimo autentico e per molto tempo si sono tollerati, e si ...
... continua a farlo ,rivoluzionari e gente che tende la mano all’ Islam”. Insomma la sua è una difesa appassionata di Lefebvre: “ torno all’inizio. Io non sono credente e di Chiesa, e quindi reputo certi postulati cattolici assolutamente inaccettabili. Ma se la Chiesa li ha messi, se esistono, penso che i credenti li debbano osservare ciecamente e senza discutere. La Chiesa, in sostanza, sia dogmatica e conservatrice, rispettosa gelosamente della tradizione ,se vuole vivere. Altrimenti sarà costretta a cedere allo spirito del mondo”.
Però i lefebvriani criticano il Concilio Vaticano II: “ a mio giudizio qualche ragione concreta la hanno. Intanto dopo il Concilio, la vera liturgia cattolica è andata a farsi benedire. Lo stesso Papa attuale, Benedetto XVI ha corretto alcune interpretazioni del Vaticano II come rottura con la tradizione confermando, in un certo modo, la sua predilezione verso la salvaguardia del patrimonio della Chiesa e l’idea di restaurazione nel senso etimologico del termine. Poi, mi passi lo sfogo che forse mi censurerà..”.
Censuriamo gli insulti, mai le idee, avanti: “ trovo pieno di retorica e francamente insopportabile, la definizione data a Giovanni XXIII di Papa Buono”. In che senso: “ ma scusi, se esiste un Papa Buono, gli altri che, sono cattivi?. Per caso Pio X o Pio XII o gli altri picchiavano i bambini, ma mi facciano il piacere. Non esiste un Papa Buono, per i veri cattolici ogni Papa è buono e rappresenta un punto di riferimento”. Il teologo Gennari, ha definito la revoca della scomunica come uno schiaffo a Giovanni Paolo II: “ l’espressione mi pare esagerata. Diciamo che Papa Ratzinger, con molto buon senso storico, ha corretto una ingiustizia sostanziale compiuta allora, anche se formalmente giustificata dal diritto canonico. Insomma è stato messo un rimedio ad un vizio dogmatico”.
Dunque, per lei la Chiesa si identifica con la tradizione: “ sicuramente. Quando si allora dai binari del dogma e della tradizione e dal rispetto fedele alle origini, la Chiesa deraglia e lo spirito dei tradizionalisti è votato al bene e non al male. Prenda la liturgia”. In che senso?: “ la Messa post conciliare è la negazione della idea del mistero. Si pretende di spiegare ciò che per natura non lo è. La Messa, per coloro che ci credono e ci vanno, è adorazione, sacrificio,mistero. Non è giusta la pretesa di voler capire tutto. Da questo punto di vista la posizione dei tradizionalisti, mi creda, non fa una piega”.
E aggiunge: “ la messa moderna, quella di Paolo VI, è nata con l’idea ecumenica, di accontentare anche i protestanti, bisogna riconoscerlo. Per esempio, lo scambio della pace. Ma mi spiega lei per quale ragione mai devo dare la pace formale se magari dentro covo odio o rancore verso il mio vicino?. E’ il trionfo della ipocrisia buonista”. Dunque favorevole al ritiro della scomunica?: “ come non credente la cosa non mi turba in un senso o nell’altro. Da storico ed intellettuale dico che è una cosa sensata ,che corregge una colossale ingiustizia storica. La chiesa sia dogmatica e rispettosa della sua tradizione, se vuole vivere”.

sabato 24 gennaio 2009

GIUSTIZIA E' FATTA!!! RIMESSA LA SCOMUNICA!!!VIVA IL PAPA!VIVA LEFEBVRE!


Con lettera del 15 dicembre 2008 indirizzata a Sua Em.za il Sig. Cardinale Dario Castrillón Hoyos, Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Mons. Bernard Fellay, anche a nome degli altri tre Vescovi consacrati il giorno 30 giugno 1988, sollecitava nuovamente la rimozione della scomunica latae sententiae formalmente dichiarata con Decreto del Prefetto di questa Congregazione per i Vescovi in data 1° luglio 1988. Nella menzionata lettera, Mons. Fellay afferma, tra l'altro: "Siamo sempre fermamente determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Noi accettiamo i suoi insegnamenti con animo filiale. Noi crediamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue prerogative, e per questo ci fa tanto soffrire l'attuale situazione".

Sua Santità Benedetto XVI - paternamente sensibile al disagio spirituale manifestato dagli interessati a causa della sanzione di scomunica e fiducioso nell'impegno da loro espresso nella citata lettera di non risparmiare alcuno sforzo per approfondire nei necessari colloqui con le Autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte, così da poter giungere presto a una piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine - ha deciso di riconsiderare la situazione canonica dei Vescovi Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta sorta con la loro consacrazione episcopale.

Con questo atto si desidera consolidare le reciproche relazioni di fiducia e intensificare e dare stabilità ai rapporti della Fraternità San Pio X con questa Sede Apostolica. Questo dono di pace, al termine delle celebrazioni natalizie, vuol essere anche un segno per promuovere l'unità nella carità della Chiesa universale e arrivare a togliere lo scandalo della divisione.

Si auspica che questo passo sia seguito dalla sollecita realizzazione della piena comunione con la Chiesa di tutta la Fraternità San Pio X, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del Magistero e dell'autorità del Papa con la prova dell'unità visibile.

In base alle facoltà espressamente concessemi dal Santo Padre Benedetto XVI, in virtù del presente Decreto, rimetto ai Vescovi Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta la censura di scomunica latae sententiae dichiarata da questa Congregazione il 1° luglio 1988, mentre dichiaro privo di effetti giuridici, a partire dall'odierna data, il Decreto a quel tempo emanato.

Roma, dalla Congregazione per i Vescovi, 21 gennaio 2009.

Card. Giovanni Battista Re

Prefetto della Congregazione per i Vescovi

giovedì 22 gennaio 2009

Il Papa cancella la scomunica ai vescovi nominati da Lefebvre. DEO GRATIAS!


di Andrea Tornielli
ilGiornale.it

Benedetto XVI ha deciso di revocare la scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre nel 1988. Il decreto, che il pontefice ha già firmato, sarà pubblicato entro la fine della settimana. Il superiore della Fraternità San Pio X, Bernard Fellay, e gli altri tre vescovi, Alfonso de Gallareta, Tissier de Mallerais e Richard Williamson non saranno dunque più scomunicati.

La decisione di Papa Ratzinger è maturata negli ultimi mesi, in seguito alla lettera con la quale monsignore Fellay aveva chiesto la revoca del provvedimento comminato da Giovanni Paolo II nel 1988, dopo che l’arcivescovo Marcel Lefebvre, rifiutando in extremis un accordo già siglato con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, consacrò vescovi quattro giovani sacerdoti del clero della Fraternità. Un atto scismatico, perché quelle consacrazioni non erano legittimate dal pontefice, giustificato invece da Lefebvre per ragioni di sopravvivenza della sua comunità tradizionalista. Una comunità che non aveva accettato la riforma liturgica post conciliare né alcuni decreti del Vaticano II, peraltro firmati dallo stesso Lefebvre, come nel caso di quello sulla libertà religiosa. Scomunicati, ventun anni fa, furono lo stesso Lefebvre, l’anziano vescovo brasiliano Antonio de Castro Mayer, che partecipò alla consacrazione avvenuta in Svizzera (entrambi da tempo scomparsi), e i quattro neovescovi. Il cammino di riavvicinamento, iniziato con Papa Wojtyla dopo che i lefebvriani guidarono un pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 2000, è continuato con alti e bassi. Ma ha subito un’accelerazione dopo l’elezione di Ratzinger. La Fraternità ha chiesto al pontefice di liberalizzare la messa antica per tutta la Chiesa. E questo Benedetto XVI ha fatto, con il motu proprio «Summorum Pontificum», pensando non tanto e non solo ai lefebvriani, ma soprattutto a quei tradizionalisti rimasti nella piena comunione con Roma ma spesso penalizzati o guardati con sospetto perché rimasti legati alla liturgia preconciliare. Poi è stata chiesta la revoca della scomunica - che, va precisato, ha riguardato soltanto i vescovi, non i cinquecento preti della Fraternità né tantomeno i fedeli che ne seguono le celebrazioni - e richiedendola, Fellay ha voluto manifestare l’attaccamento al Papa e la volontà della piena comunione. I lefebvriani hanno anche compiuto di recente un pellegrinaggio a Lourdes, dove i quattro vescovi hanno lanciato l’iniziativa di far recitare ai fedeli un milione e settecentomila rosari per chiedere alla Madonna che la scomunica fosse tolta.

Il decreto che sarà reso noto nelle prossime ore non significa di per sé la soluzione del problema lefebvriano, ma rappresenta un passo importante. Il prossimo passò sarà un accordo che dia alla Fraternità San Pio X uno status giuridico nella Chiesa cattolica. La decisione di revocare la scomunica è un atto di grande magnanimità di Benedetto XVI, che va nella linea di sanare fratture e divisioni nel corpo ecclesiale e di riaccogliere nella piena comunione oltre ai vescovi, anche i sacerdoti e i fedeli. Nel giugno scorso il cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia commissione «Ecclesia Dei», aveva posto a monsignor Fellay condizioni per proseguire il dialogo con la Fraternità, chiedendo ai lefebvriani «l’impegno a una risposta proporzionata alla generosità del Papa», a «evitare ogni intervento pubblico che non rispetti la persona del Santo Padre e che possa essere negativo per la carità ecclesiale», a «evitare la pretesa di un magistero superiore» a quello del Papa, e di «non proporre la Fraternità in contrapposizione alla Chiesa». Infine, l’impegno «a dimostrare la volontà di agire onestamente nella piena carità ecclesiale e nel rispetto dell’autorità del Vicario di Cristo».

sabato 10 gennaio 2009

L’omosessualità è una patologia, oltre che un grave disordine mentale. Sacerdoti gay? Dico di no e trovo inopportuno parlarne su un giornale cattolico


di Bruno Volpe
PONTIFEX.ROMA.IT

Il professor Francesco Bruno, in un sol colpo, bacchetta il collega Vittorino Andreoli e l’Avvenire. Che cosa è accaduto. Sul prestigioso quotidiano della Cei ,il professor Vittorino Andreoli, nel corso di una comunque interessante inchiesta sul tema della omosessualità, ha sostenuto che non si tratta di patologia, scatenando la sfrenata passione e l’entusiasmo di Franco Grillini. Abbiamo interpellato sul tema il professor Francesco Bruno che la pensa in modo diverso. Dunque professore in che modo va considerata l’omosessualità, ed in particolare si trova in sintonia con il collega Andreoli che la ha definita non patologica? : “allora, bisogna dire questo. L’omosessualità è una malattia che si genera e dipende anche da una predisposizione biologica, mentre a volte è causata da disturbi derivanti dal contesto della famiglia, dall’ambiente in cui si vive da problemi di relazione con i genitori. Dunque l’omosessualità, tenuto ...

... conto che la normalità, secondo natura, contempla i generi di uomo e donna, è patologica e quindi considerabile una malattia”. Poi aggiunge: “ tanto viene confermato dalla Organizzazione mondiale della sanità e dai colleghi americani che hanno depennato dalle malattie solo la cosiddetta omosessualità egosintonica”.

Dunque secondo lei l’omosessualità è figlia di una patologia: “ certo. Tutte le condotte contro natura sono patologiche. Ora ho esaminato il caso in cui un soggetto per cause organiche ha una predisposizione all’omosessualità. Poi esiste un secondo caso”.

Quale sarebbe?: “ quando il soggetto liberamente sceglie di essere omosessuale, in quel caso compie una scelta border line criminosa. Voglio dire se questa scelta omosessuale è responsabile, non frutto di traumi, ma avviene all’interno di gruppi sociali ben definiti, ha degli evidenti caratteri antisociali, spesso anche insidiosi che potenzialmente hanno natura lesiva dell’ordinata convivenza. Ovviamente non bisogna discriminarli e con questo non dico che tutti gli omosessuali siano pericolosi, ma certo si tratta di un grave caso di disordine mentale”.

Ma in quali casi un soggetto responsabilmente sceglie di voler essere omosessuale?: “ quando volontariamente abbandona la via dettata dalla natura e per opzioni sociali e culturali contro natura e socialmente criminali nel senso di sbagliate, vuole creare un terzo genere mai contemplato da madre natura. Dunque ,il collega Andreoli che stimo e apprezzo non mi trova consenziente: l’omosessualità è patologica, va considerata una vera e propria infermità vuoi dal lato biologico, vuoi dal lato mentale”.

Professore, ritiene compatibile o accettabile un prete gay? : “ assolutamente no. Intanto senza voler fare il teologo il prete, deve obbedire alla castità, quindi sarebbe da condannare sia un prete gay ,che eterosessuale. Ciò detto, un prete gay lo è maggiormente, perché viola il dovere di castità contro la natura. Insomma il sacerdote perde poi anche la libertà personale che è caratteristica del suo ministero, senza contare i rischi di altra natura che si potrebbero correre in seminari e conventi ,per i quali la Chiesa ha già pagato prezzi elevati. No, omosessualità e sacerdozio sono in contrasto”.

Il giornale Avvenire ha ospitato un intervento di Andreoli in cui si fanno siffatte affermazioni: “ Andreoli è libero e padrone di dire e scrivere ciò che crede nei convegni e su tutti gli organi di informazione. Io non me la prendo con Andreoli. Da cattolico, ed anche un poco all’antica, trovo sconcertante che un giornale come Avvenire ospiti, certamente con rette intenzioni, temi del genere che possono mal interpretarsi da menti malate o deboli”.

La riforma liturgica del Concilio Vaticano II non è conclusa

Intervista a un Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice
di Miriam Díez i Bosch
ZENIT.org


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 gennaio 2009.- La liturgia è chiaramente uno degli ambiti che sta più a cuore a Papa Benedetto XVI il quale, oltre a celebrare esemplarmente la liturgia, ha emanato il Motu Proprio Summorum Pontificum, che ha reinserito a pieno titolo la liturgia tradizionale nell'uso della Chiesa.
Il tema liturgico suscita anche un vivo dibattito tra gli studiosi, come testimoniano le diverse prese di posizione su un recente volume di Nicola Bux.

ZENIT ha parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario di Teologia presso l'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

L'ultimo volume di don Nicola Bux sulla riforma liturgica di Benedetto XVI sta conoscendo un buon successo presso i lettori, ma sta anche suscitando un certo dibattito tra gli specialisti. Prof. Gagliardi, potrebbe darci qualche linea di interpretazione di questo volume?

Gagliardi: In una mia breve presentazione dell'ultimo libro di Nicola Bux, "La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione", Piemme, Casale Monferrato 2008 (cf. Sacrum Ministerium 14 [2008/2], pp. 144-145), esordivo scrivendo: «Il Concilio Vaticano II ha dato l'avvio ad una riforma della liturgia che ha conosciuto diverse fasi e che è ancora in corso. Va interpretato in quest'ottica il bel titolo dell'ultimo libro di don Nicola Bux». Con queste parole notavo implicitamente la sintonia da me avvertita tra lo spirito espresso dal volume del noto studioso pugliese e quanto io stesso avevo sostenuto un anno prima nel mio libro dal titolo "Introduzione al Mistero eucaristico. Dottrina – liturgia – devozione", San Clemente, Roma 2007, in cui avevo affermato che la riforma liturgica, avviata con il Concilio Vaticano II (ma in realtà già prima), non sia affatto conclusa, bensì ancora «in fieri». Perciò, in modi e misure diverse, tutti i papi postconciliari vi hanno apportato il proprio contributo: da Paolo VI a Benedetto XVI.

Naturalmente simile riforma, essendo un lavoro lungo e laborioso – non si dimentichi che essa è cominciata da soli quarant'anni! – comporta un'enorme fatica e soprattutto un'enorme pazienza, come pure la consapevolezza di dover essere sempre vigilanti sulla sua corretta applicazione, ma anche l'umiltà di saper rivedere degli aspetti – persino se universalmente autorizzati, o addirittura promossi dalla vigente normativa – se questi aspetti dovessero essere problematici, o anche solo migliorabili. D'altro canto, chi oggi ritiene che il rito di Paolo VI abbia migliorato quello di San Pio V non afferma anche, più o meno direttamente, che la normativa precedentemente stabilita e vigente doveva essere migliorata? E perché, allora, la normativa che riguarda il Novus Ordo dovrebbe ritenersi perfetta ed intoccabile? In una riforma liturgica ciò che conta non è affermare le proprie idee a tutti i costi, anche contro l'evidenza, bensì aiutare la Chiesa ad adorare sempre meglio la Santissima Trinità. Tutti, infatti, o quasi, convengono nel riconoscere che l'adorazione del Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo è l'essenza e al tempo stesso il fine della sacra liturgia, o culto divino. Essendo questo punto comune pressoché a tutti gli studiosi seri, si vede che bisogna costruire a partire da qui.

Lei ritiene, dunque, che il recente libro del suo collega don Nicola Bux sia di aiuto a comprendere l'indole teologica della liturgia?

Gagliardi: Nicola Bux dedica a questo punto basilare, ossia alla comprensione teologica della sacra liturgia, i primi due capitoli del suo libro. Gli altri capitoli si rivolgono, invece, ad analizzare lo stato attuale della riforma liturgica ancora in atto: la situazione concreta, ma anche la storia recente che ha condotto ad essa. Egli riconosce che «è in atto una battaglia sulla liturgia» (p. 45; cf. p. 50). La liturgia è attualmente oggetto conteso tra innovatori e tradizionalisti – anche il sottotitolo del libro fa riferimento a ciò – ed ognuno cerca di tirare l'acqua al suo mulino, sottolineando gli aspetti teologici e giuridici che fanno al caso proprio e insabbiando o "reinterpretando" i dati sfavorevoli alla propria tesi preconcetta. Simile atteggiamento si trova sia nella cosiddetta "destra" che nella cosiddetta "sinistra". Invece, Don Bux avvisa: «Non ha senso essere a oltranza innovatori o tradizionalisti» (p. 46) e mi pare che tutto il suo libro vada inteso in quest'ottica. Innanzitutto va ricordato che si tratta di un libro volutamente sintetico, che getta sul tappeto i temi da discutere, più che fornire lunghi approfondimenti su ciascuno di essi. È un invito alla riflessione, al dialogo, allo studio, anche – se si vuole – al confronto serrato tra le diverse posizioni, ma curando che il confronto sia fondato su argomentazioni e non su pregiudizi di parte. È un libro che si propone di essere equilibrato e di invitare all'equilibrio. «Si tratta di un ammonimento agli uni e agli altri – scrive l'Autore, a proposito di un tema particolare, riferendosi agli innovatori ed ai tradizionalisti – perché ritrovino l'equilibrio» (p. 63). Questo è il tentativo e la proposta che don Bux vuol fare con il suo volume.

In questo modo entriamo nel vivo dibattito tra gli studiosi, che attualmente assumono posizioni diverse non solo sulla teologia liturgica ma anche sulle concrete disposizioni disciplinari che la Chiesa stabilisce in materia.

È chiaro che la posizione moderata è sempre la più difficile, sia da esporre che da difendere. Non mancheranno, infatti, attacchi sia da "destra" che da "sinistra". Simile reazione sembra esserci anche nei confronti dell'opera di cui stiamo parlando. Vorrei illustrare questo stato di fatto, chiamando in causa due imminenti recensioni al libro di don Bux. Da una parte, quella di Bernard Dumont, che apparirà a breve nel numero invernale della rivista francese Catholica; dall'altra, quella di Matias Augé, che circola in internet da qualche tempo e, si prevede, verrà prossimamente pubblicata su una rivista italiana. Dumont dà una valutazione tutto sommato favorevole del libro di Bux, ma gli rimprovera di non essere andato fino in fondo con la sua critica alla liturgia attuale (ossia, alla forma ordinaria). Secondo Dumont, infatti, Bux avrebbe fatto dei lievi cenni di critica alla riforma liturgica in sé, ma si sarebbe soffermato soprattutto sulla critica agli abusi, che ovviamente sono deformazioni della riforma e non parte di essa. Egli scrive (la traduzione dal francese è mia): «Nicola Bux [...] ritiene che la prima causa [dell'attuale situazione] è l'applicazione all'ambito liturgico della "svolta antropologica" formulata da Karl Rahner. [...] Questa famosa "svolta" (che – aggiunge Dumont – è piuttosto un capovolgimento, tra l'altro manifestato molto bene dal capovolgimento degli altari, non previsto esplicitamente in origine) ha tuttavia dei forti appoggi giuridici, sui quali converrebbe essere chiari. Perché ci sono degli atti giuridici che hanno permesso o istituito questo capovolgimento, e non solo le pressioni di attivisti o il mimetismo delle équipes di animazione: ma le decisioni di vescovi, le decisioni di dicasteri e consigli della Curia debitamente comandate, e i discorsi stessi di Paolo VI che esprimono il suo assenso».

Egli continua in seguito: «L'Autore menziona tuttavia le critiche del rito riformato (e non della sua sola pratica) fatte da mons. Klaus Gamber, Lorenzo Bianchi e Martin Mosebach, ma egli non vi insiste. Tatticamente, egli rigetta mano a mano, in una simmetria retorica perfetta, tradizionalisti e progressisti. Avendo fatto ciò, egli può ripartire con nuovo slancio in una critica molto ampia degli abusi liturgici». Tuttavia, avvisa Dumont, «gli abusi così stigmatizzati non sono altro che la pratica più o meno universalmente diffusa del nuovo Ordo dopo il 1969». In sintesi, la critica di Dumont consiste nel riconoscere il seguente difetto nell'opera di don Bux: stigmatizzerebbe gli abusi, ma farebbe solo brevi cenni al fatto che è il Novus Ordo in sé il problema, nonché tutta la conseguente normativa, sia dei dicasteri vaticani che delle conferenze episcopali; normativa che avrebbe per lui incoraggiato, o almeno permesso, uno stile celebrativo come quello che oggi conosciamo. Allora, non si tratterebbe più di abusi, ma della norma. Pertanto, l'attuale ordinamento liturgico, siccome non tradurrebbe più il senso divino della liturgia, andrebbe rigettato in toto.

Se ci spostiamo ora alla seconda recensione, la critica fatta da Matias Augé è di tutt'altro ordine. Lungi dal criticare la riforma liturgica postconciliare, il noto liturgista attribuisce a don Bux la responsabilità di tale critica. Egli scrive che, a partire dal III capitolo, nel libro «il tono del discorso è fortemente polemico diventando una serrata critica dell'applicazione della riforma liturgica postconciliare nonché della riforma stessa» (corsivo mio) e che l'Autore fa una descrizione della «battaglia sulla riforma liturgica [...] in cui lo sconfitto è la cosiddetta "forma ordinaria" del rito romano, e cioè la riforma della liturgia attuata dopo il Vaticano II». Uno dei rilievi che Augé ripete più di una volta nella sua recensione consiste nell'individuare nel testo un «intreccio» e una «confusione» di «valutazioni negative sulla liturgia riformata [...] con le valutazioni pure esse negative sulla sua celebrazione».

Che impressioni ha di queste opposte critiche?
Gagliardi: Mi pare di poter dire che i due Recensori concordino su un solo punto: il volume in analisi non offrirebbe secondo loro una valutazione corretta del rapporto tra la riforma in sé e gli abusi che si verificano nella celebrazione svolta secondo il Novus Ordo. Tuttavia, mentre Dumont afferma ciò dicendo che gli abusi coincidono con la riforma stessa e quindi essa va invalidata, Augé separa nettamente le due cose, dicendo che la riforma in sé è più che valida e ha migliorato la celebrazione rispetto al rito cosiddetto "di San Pio V", mentre per quanto riguarda gli abusi, anch'egli stigmatizza «la stupida faciloneria con cui alcuni presbiteri presiedono le celebrazioni liturgiche» (corsivo mio); e conclude: «Vorrei però che tutto questo proliferare di abusi non sia un alibi per smontare pezzo a pezzo la riforma liturgica» (di nuovo, corsivo mio: mi pare che tra le due espressioni evidenziate ci sia contraddizione). Di fronte alla possibilità di rivedere la riforma operata sotto Paolo VI, Augé conclude chiedendosi: «Tale eventuale riforma della riforma dove dovrebbe prendere ispirazione, dal Messale del 1962 o dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium? Invece di spendere tante energie in questa operazione, non sarebbe meglio spenderle per approfondire sempre più intensamente la liturgia della Chiesa "celebrata secondo i libri attuali e vissuta prima di tutto come un fatto di ordine spirituale"?». Alla base di queste due domande di Augé sembrano esserci due presupposti: primo, che la «riforma della riforma» possa consistere o nel tornare al rito di San Pio V, o nel seguire il dettato conciliare. Ma questo presupposto non si basa sull'idea che tra l'insegnamento liturgico del Vaticano II e quello precedente vi è un'insanabile discontinuità? Non vi sono spazi per un «et-et»? Il secondo presupposto si nota nell'espressione «liturgia della Chiesa», applicata per indicare la normativa postconciliare. Esprimendosi come fa Augé, non si afferma indirettamente che il Messale promulgato nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII non è «liturgia della Chiesa»? O, se l'espressione «liturgia della Chiesa» va caratterizzata in base al testo da lui citato (ripreso dalla Vicesimus quintus annus), non c'è il rischio di lasciar intendere che la liturgia preconciliare non era «un fatto di ordine spirituale»?

In conclusione, come ci si deve orientare per comprendere il senso dell'attuale dibattito e delle decisioni del Santo Padre in materia liturgica?

Gagliardi: Le domande ed osservazioni sopra esposte ci permettono di affacciarci su quello che, in fondo, è il punto di appoggio del volume di Don Bux e quindi anche delle critiche ad esso: il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Don Bux ritiene che esso rappresenti un segno evidente di un progetto di rinnovamento liturgico e di incremento della sacra liturgia, che senza alcun ragionevole dubbio sta certamente a cuore al Papa. La decisione pontificia – da molti ridotta ad una prospettiva strettamente ecumenica, come "concessione" ai lefebvriani (che tuttavia, questo lo si dimentica, non avevano bisogno del Motu proprio, perché da sempre celebrano con il rito antico) – ha per l'Autore un significato molto più ampio e che va nella direzione di un «superamento della cesura operata nel processo di riforma della liturgia contrapponendo il nuovo rito all'antico» (p. 45). A me pare che don Bux veda giusto: il Santo Padre stesso ha dichiarato, nella Lettera apostolica che accompagna il Summorum pontificum, che l'obiettivo della sua decisione è quello di «giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». Non si tratta solo di una riconciliazione con chi è "fuori" della Chiesa, come formalmente sono (per ora) i lefebvriani; si tratta di una riconciliazione «interna»: quindi tra i cattolici. Perciò il punto debole della riforma postconciliare va individuato, come fa Don Bux, non tanto nella riforma in sé (che pure presenta, come ogni cosa umana, aspetti migliorabili e altri persino da rivedere), quanto nel fatto di aver voluto presentare il Novus Ordo non solo come nuovo, ma come opposto all'Antiquior. È questo strappo alla continuità della tradizione che ha causato e causa incomprensioni, polemiche e sofferenze. La riforma postconciliare deve essere compresa come novità nella continuità: solo questo permetterà di condurla in porto. Sì, perché – lo ripeto – essa non è affatto conclusa. Non ho qui, purtroppo, la possibilità di analizzare punto per punto le altre critiche mosse al volume in questione – si può discutere su ognuna e valutare quanto colga nel segno, o quanto fraintenda, per aver operato una lettura selettiva e parziale di esso. Ma resta certo che un volume come questo è destinato, nell'attuale momento, ad essere segno di contraddizione proprio perché cerca di favorire – in modo particolare tra gli studiosi del settore, ma anche tra le contrapposte "fazioni" di sostenitori di una sola delle due forme del rito romano – l'umiltà, la comprensione, la tolleranza e l'apertura mentale (cf. p. 87), obiettivo che coincide con quello di Benedetto XVI.
Su un punto almeno, però, voglio prendere posizione chiara a fianco dell'Autore: anch'io sono convinto che la formazione liturgica del popolo di Dio – pur doverosa e raccomandata come minimo dal Concilio di Trento in poi – non sia da sola sufficiente per favorire il vero spirito liturgico e il corretto stile adorante del culto cristiano. Il Concilio di Trento insegnò che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà» (DS 1746). Ciò vuol dire che le menti si elevano a Dio non solo attraverso la formazione, ma anche e soprattutto attraverso i segni visibili e sacri del culto divino, che proprio per questo vengono fissati dalla Chiesa. Perciò don Bux può rallegrarsi del fatto che «sta nascendo un nuovo movimento liturgico che guarda alle liturgie di Benedetto XVI; non bastano le istruzioni preparate da esperti, ci vogliono liturgie esemplari che facciano incontrare Dio» (p. 123).
Il pieno recupero dell'Usus Antiquior per la celebrazione della Messa non va forse in questa direzione, sottolineando, come ha scritto il Papa, che «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda»? È in questa direzione, tracciata da Benedetto XVI, che si incammina la proposta di Nicola Bux e credo che tutti coloro che hanno a cuore il bene della Chiesa – il che io do per presupposto, sia da parte dei tradizionalisti che degli innovatori, al di là delle concrete vedute parziali – dovrebbero accogliere l'invito a confrontarsi, camminando sul sentiero della riforma ancora «in fieri».

martedì 6 gennaio 2009

Esclusivo - In un ‘vademecum’ il giro di vite di Benedetto XVI sulle apparizioni mariane. Un ‘pool’ di teologi, psichiatri ed esorcisti al servizio de

www.papanews.it
CITTA’ DEL VATICANO - Civitavecchia e Medjugorje rappresentano solo i casi più recenti e clamorosi: luoghi in cui presunti veggenti dicono di aver avuto e di continuare ad avere apparizioni della Vergine, anche se Nostra Signora si limiterebbe a dar loro messaggi assolutamente inconsistenti dal punto di vista teologico e spirituale. Risultato: i fedeli si trovano disorientati, con i presunti veggenti al centro di manifestazioni che la Chiesa non solo non ha ancora riconosciuto come veritiere ma che difficilmente approverà anche in futuro. Come si sa, peraltro, in materia la cautela della Chiesa è massima: centinaia sono i casi di apparizioni bocciati e bollati come falsi solo negli ultimi cinquant’anni. Tuttavia, c’è chi continua a giurare vedere la Madonna, richiamando nei propri luoghi folle di fedeli disperati, molte volte alla ricerca di un miracolo o di una grazia che, però, non arriva. Come affrontare, allora, questo fenomeno? Come evitare che si diffondano messaggi non veritieri della Madre di Cristo all’umanità? Le risposte a questi e ad altri quesiti sono contenute in un ‘direttorio’ che Benedetto XVI ha fatto istruire alla Congregazione per la Dottrina della Fede e che presto verrà reso pubblico e inviato ai Vescovi diocesani di tutto il mondo. Con tale documento, che integra le Istruzioni già impartite nel 1978 dal Vaticano, il Papa chiede la massima severità negli accertamenti relativi alla constatazione della veridicità delle apparizioni mariane. I Vescovi, dopo aver insediato una Commissione di psichiatri, psicologi, teologi e pedagogisti, dovranno imporre il silenzio agli pseudo-veggenti. Sarà questo un primo banco di prova: la storia insegna, da Lourdes a Fatima, da Guadalupe a La Salette, che chi realmente ha il dono di essere in contatto diretto con la Madonna, segue, anche a causa di enormi sofferenze, le direttive della Chiesa locale. Dunque, chi non resterà nel silenzio ma farà sì che la notizia di queste presunte apparizioni circoli liberamente, attirando attorno a sé la presenza di curiosi, giornalisti e fedeli alla ricerca di una grazia particolare, avrà già dato un segno indicativo della falsità del proprio misticismo. Maria stessa, infatti, non convaliderebbe mai un atto di disobbedienza nei confronti di un Vescovo, anche se questi fosse in errore. Secondo punto: gli pseudo-veggenti andranno visitati da psichiatri e psicologi, possibilmente sia atei che cattolici, per certificare la loro salute mentale e per verificare se siano affetti o meno da patologie di carattere isterico o allucinatorio o da manie di protagonismo. Terzo passo da compiere: appurare il livello di istruzione di chi si proclama ‘mistico’, per evitare che possa ingannare le autorità ecclesiastiche e i fedeli dopo aver attentamente studiato scritti di teologia e mariologia. In tal senso, chi è oggetto di accertamenti da parte dell’autorità ecclesiastica, sarà chiamato a consegnare alla Commissione insediata dalla Diocesi anche le apparecchiature informatiche in suo possesso, compresi i personal computer, per consentire di verificare se abbia mai effettuato ricerche in materia di apparizioni in Internet, uno strumento ricco di informazioni per chi volesse ‘copiare’ o imparare da veri veggenti il senso teologico di messaggi celesti. Nel direttorio, inoltre, si chiede ai Vescovi di accertare se gli pseudo-veggenti abbiano interessi economici diretti o indiretti in relazione ai pellegrinaggi e all’inevitabile vendita di souvernirs religiosi nei luoghi in cui dicono di vedere la Beata Vergine Maria. C’è poi la questione del rispetto dell’ortodossia: quanto rivelato dalle apparizioni non deve risultare in contrasto né con il Vangelo né con la dottrina della Chiesa ma essere in armonia con essi. Va da sé, dunque, che se un ‘veggente’ attribuisce alla Madonna frasi o concetti contrari al Magistero, è da considerare un mendace. Se proprio dalle analisi non dovessero risultare anomalie, e quindi il ‘veggente’ dovesse essere ritenuto credibile, in ultima istanza dovrà essere interrogato da uno o più demonologi ed esorcisti per escludere che dietro alle apparizioni (come è già avvenuto tantissime altre volte nella storia del cristianesimo) si nasconda Satana per trarre in inganno i fedeli. In base alle nuove istruzioni pronte ad essere emanate dalla Santa Sede in nome e per conto di Benedetto XVI, che con il fenomeno delle apparizioni mariane ha già avuto a che fare durante il suo ultraventennale mandato di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, c’è dunque da attendersi un vero e proprio giro di vite, con ‘processi’ più lunghi, meticolosi e rigidi da parte delle Diocesi, anche per una corretta informazione da fornire ai fedeli, in modo che non si verifichino vicende molto simili a quelle di Civitavecchia e Medjugorje, dove migliaia di persone continuano ad accorrere malgrado il Vaticano non abbia mai riconosciuto come veritieri i fenomeni soprannaturali ivi segnalati. Naturalmente, stando al ‘vademecum’ fatto redigere dal Papa alla Congregazione competente, la stessa prassi ‘investigativa’ andrà impiegata qualora qualcuno dovesse asserire di vedere e parlare con Gesù, gli Angeli o i Santi o se addirittura (è recente un caso in provincia di Salerno) manifestasse le stimmate o edichiarsse di avere statue ed immagini sacre che lacrimano in casa. Per conoscere il pensiero di Benedetto XVI in materia, basta ricordare quanto egli dichiarò, ancora Cardinale, al giornalista e scrittore Vittorio Messori: “In questo campo, più che mai, la pazienza è un elemento fondamentale. Nessuna apparizione è indispensabile alla fede, la Rivelazione è terminata con Gesù Cristo”. Il noto teologo René Laurentin, dopo anni di ricerche, ha censito oltre 2.450 manifestazioni mariane documentate nella storia della Chiesa. Ma su quasi 300 richieste di indagine avviate nell’ultimo secolo, le autorità ecclesiastiche hanno attestato ufficialmente come vere solo una dozzina di apparizioni. L’ultimo riconoscimento è quello di Nostra Signora di Laus, in Francia, avvenuto l’8 maggio del 2008, però i fedeli hanno dovuto attendere 3 secoli prima di ottenerlo. Le altre apparizioni approvate sono concentrate soprattutto in Europa (Fatima, La Salette, Tuy, Beauraing, Banneux, Siracusa), ma anche in Egitto (Zeitun), Siria (Damasco) e Ruanda (Kibeho). All’inizio di questo articolo accennavamo a Civitavecchia e Medjugorje: nel primo caso, è una bambina ad asserire di aver avuto apparizioni della Vergine. Contestualmente, una statua della Madonna di Medjugorje collocata nel giardino della sua abitazione, avrebbe addirittura pianto sangue; lo stesso fenomeno si sarebbe ripetuto in presenza dell’allora Vescovo Girolamo Grillo, in un primo momento scettico. Lo stesso Giovanni Paolo II, messo a conoscenza dell’accaduto, volle per alcune ore quella statua nella sua cappella privata, ma il Vaticano non si è mai pronunciato a favore delle apparizioni e delle lacrimazioni soprannaturali. Più complesso il caso di Medjugorje: da oltre un quarto di secolo la Madonna apparirebbe ogni giorno ai veggenti e una volta al mese detterebbe un messaggio per l’umanità. Ma il Cardinale Tarcisio Bertone, braccio destro del Papa, non ha mai nascosto il suo scetticismo: “Dal 1981, Maria sarebbe apparsa decine di migliaia di volte a Medjugorje. Questo è un fenomeno non assimilabile ad altre apparizioni mariane”. Per questo il Vaticano ha chiesto all’Opera romana pellegrinaggi (una delle più importanti agenzie di turismo religioso che fa capo al Vicariato di Roma) di depennare dal catalogo le visite alla più famosa località della Bosnia-Erzegovina, dove comunque si recano oltre due milioni di fedeli l’anno. Il problema dov’è? Si sono create due fazioni: una favorevole alle apparizioni, e dunque dalla parte dei veggenti; l’altra apertamente schierata con il Vescovo diocesano, Monsignor Ratko Peric, che come il suo defunto predecessore, non crede alla veridicità di questi fenomeni e, non venendo mai ascoltato, ha chiesto da tempo ai presunti veggenti di vivere nel nascondimento e di non divulgare alcun messaggio attribuito alla Madonna. Basterebbe già la mancata obbedienza al Vescovo, secondo il vademecum voluto da Benedetto XVI, per dichiarare false le apparizioni di Medjugorje.

lunedì 5 gennaio 2009

Papa: guerra e odio non sono la soluzione dei problemi. Azione immediata per porre fine all’attuale tragica situazione


“ Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente. Preghiamo affinché il Bambino della mangiatoia ispiri le autorità e i responsabili di entrambi i fronti israeliano e palestinese a un’azione immediata per porre fine all’attuale tragica situazione”: ecco il severo monito del Papa Benedetto XVI al dopo Angelus in riferimento ai drammatici avvenimenti che stanno sconvolgendo la striscia di Gaza e quindi la Terra Santa. Il Pontefice ha invitato a pregare per “ le vittime, i feriti e quanti hanno il cuore spezzato, chi vive nell’angoscia e nel timore,perché Dio li benedica con la consolazione,la pazienza e la pace che vengono da Lui”. E’ il secondo Angelus consecutivo che il Pontefice, messaggero ...di pace, dedica al drammatico conflitto che rischia di deflagrare e che produce conseguenze ed effervescenze anche qui in Europa. Nell’Angelus il Pontefice ha dedicato una bella catechesi al primo capitolo del Vangelo di San Giovanni spiegando che “ ogni uomo ed ogni donna ha bisogno di trovare un senso profondo per la propria esistenza. E per questo non bastano i libri e nemmeno le sacre Scritture”. Ma Dio. Al termine il Papa ha salutato cordialmente i partecipanti al Congresso internazionale sul “ Sistema preventivo di Don Bosco e diritti umani” organizzato dal Salesiani, gruppi di pellegrini dall’America Latina e Polonia, e giovani di Sondrio, Verona, del Trentino e del Friuli.
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di Bruno Volpe
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