lunedì 27 ottobre 2008

"Se non c'è sguardo verso Dio, tutto il resto perde direzione"

Città del Vaticano, 22 ott. (Apcom) - La cosiddetta messa 'spalle al popolo' non è un'invenzione peregrina, ma una prassi invalsa presso gli antichi cristiani - e superata solo in tempi moderni - che mette in evidenza come preti e fedeli preghino insieme Dio, vero centro della liturgia e della vita cristiana: lo ribadisce il Papa in un passaggio dell'introduzione all'undicesimo volume in lingua tedesca della sua 'opera omnia' presentato oggi in Vaticano.

Joseph Ratzinger ripercorre la vicenda delle polemiche suscitate da un suo libro pubblicato nel 2000, quando era cardinale, 'Lo spirito della liturgia. Un'introduzione', per fare chiarezza. Fautore di una liturgia sobria e solenne (da Papa, ad esempio, ha promulgato il Motu proprio che ha liberalizzato il messale tridentino, la cosiddetta messa in latino), Benedetto XVI spiega che nel volume del 2000 affrontava la questione liturgica in modo ampio e dettagliato. "Purtroppo quasi tutte le recensioni si sono concentrate su alcuni capitoli: l'altare e la direzione della preghiera nella liturgia. I lettori delle recensioni si devono essere convinti che l'intero libro trattava della direzione nelle celebrazioni e che il suo contenuto era di voler reintrodurre la messa 'spalle al popolo'. Di fronte a queste rappresentazioni - confessa il Papa - per un certo tempo ho pensato di eliminare quel capitolo - nove pagine di circa duecento - in modo che potesse finalmente emergere quello che nel libro effettivamente mi interessava".

Un'idea alla quale rinunciò, spiega Benedetto XVI, tanto più che nel frattempo sono stati pubblicati altri libri (di U.M. Lang e di S. Heid) che fanno chiarezza in materia. E spiegano ancor più diffusamente quello che Ratzinger aveva affermato. "Il pensiero che preti e fedeli nella preghiera si guardino l'un l'altro è emersa solo nei tempi moderni ed era del tutto estranea agli antichi cristiani", scrive oggi il Papa. Il senso del suo ragionamento, allora, era "non di fare nuove trasformazioni, ma semplicemente mettere al centro dell'altare la croce che presti e credenti guardano insieme, per farsi guidare dal Signore che tutti pregano insieme".

mercoledì 22 ottobre 2008

Il Cardinal Arinze: la Messa continua nella vita dei credenti.

Il cardinale Arinze, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, illustra le iniziative per dare attuazione al Sinodo del 2005 sull'Eucaristia.

di Gianluca Biccini

L'Ite, missa est affiancato da formule alternative che esprimono la dimensione missionaria del saluto liturgico finale. Il gesto dello scambio della pace anticipato tra la preghiera dei fedeli e l'offertorio. E poi un compendio eucaristico per aiutare i fedeli a capire ogni gesto della celebrazione del sacramento dell'altare. E un elenco dei grandi temi della fede proposto ai sacerdoti per le omelie domenicali, durante il ciclo triennale.
Tempo di "lavori in corso" alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. La definizione è del cardinale prefetto Francis Arinze, che ha illustrato all'assemblea del Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio in svolgimento in Vaticano i quattro progetti a cui il dicastero ha dedicato gran parte della sua attività in questi ultimi due anni. Piccoli interventi per rispondere ad alcune osservazioni emerse dai lavori della precedente assemblea sinodale del 2005 sull'Eucaristia e poi recepite dall'esortazione apostolica Sacramentum Caritatis. Benedetto XVI ha dato indicazioni precise sulle singole questioni, offrendo già in un caso - quello dell'Ite, missa est - le concrete alternative praticabili. In questa intervista al nostro giornale il cardinale nigeriano spiega nel dettaglio le iniziative presentate sabato scorso ai padri sinodali, illustrandone le motivazioni, le modalità e i tempi di attuazione.


Ite, missa est, "La messa è finita, andate in pace". Questa espressione ormai divenuta familiare è destinata a scomparire?
No, viene integrata con altre tre possibilità. Il numero 51 della Sacramentum Caritatis ha ribadito che il saluto al termine della celebrazione eucaristica, con cui il diacono o il sacerdote congeda il popolo, permette di cogliere il rapporto tra messa celebrata e missione cristiana nel mondo. "Nell'antichità - ricorda Benedetto XVI - missa significava semplicemente "dimissione"". Tuttavia l'espressione ha trovato nell'uso cristiano un significato più profondo trasformandosi in "missione". Il saluto così esprime la natura missionaria della Chiesa e, di conseguenza, è opportuno aiutare il popolo di Dio ad approfondire tale dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia. In tale prospettiva il Papa ha ritenuto utile "disporre di testi, opportunamente approvati, per l'orazione sul popolo e la benedizione finale che esplicitino tale legame".


Dunque l'antica formula non è sufficientemente esplicita in questo senso?
A me sembra che per tanti cattolici l'espressione significhi semplicemente: "Ora la messa è finita, andate a riposarvi". Molti padri sinodali avevano auspicato formule alternative per esprimere la dimensione missionaria del saluto finale. Per esempio: "La celebrazione eucaristica è finita. Andate adesso a vivere ciò che abbiamo sentito, ricevuto, cantato, pregato e meditato". Interpellata dal Pontefice la nostra Congregazione ha avviato uno studio cui è seguita una vasta consultazione dalla quale sono emerse ben 72 formule alternative. Prima di presentarle a Benedetto XVI abbiamo ridotto il loro numero a nove e questi ne ha scelte tre: Ite ad Evangelium Domini annuntiandum; Ite in pace, glorificando vita vestra Dominum; Ite in pace.


Queste tre possibilità sono già operative?
Sì, le formule sono state inserite nel Missale Romanum, terza Editio Tipica Emendata pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana la settimana scorsa. A pagina 605 si può vedere che l'Ite, missa est non è stato abolito, ma solo affiancato da altre alternative. Vorrei aggiungere che i messali approvati nel passato per diverse nazioni, con altre alternative, accolgono sostanzialmente quelle scelte.


E per quanto riguarda la possibilità di modificare la collocazione dello "scambio della pace" nell'ambito della celebrazione liturgica?
Diciamo anzitutto che si tratta ancora di un'ipotesi. Al numero 49 dell'esortazione apostolica il Papa premette che "l'Eucaristia è per sua natura Sacramento della pace" e che "questa dimensione del Mistero eucaristico trova nella Celebrazione liturgica specifica espressione nel rito dello scambio della pace". Un "segno di grande valore" dunque che "nel nostro tempo, così spaventosamente carico di conflitti", acquista un particolare rilievo anche dal punto di vista della sensibilità comune, in quanto "la Chiesa avverte sempre più come compito proprio quello di implorare dal Signore il dono della pace e dell'unità per se stessa e per l'intera famiglia umana". Per Papa Ratzinger "la pace è un anelito insopprimibile, presente nel cuore di ciascuno", tanto che "la Chiesa si fa voce della domanda di pace e di riconciliazione che sale dall'animo di ogni persona di buona volontà". Da tali premesse si comprende l'intensità con cui il rito della pace è sentito nel contesto della celebrazione liturgica.


Perché allora l'ipotesi di spostarlo?
Già durante il Sinodo del 2005 era stata rilevata l'opportunità di moderare questo gesto, che - rileva la Sacramentum Caritatis - "può assumere espressioni eccessive, suscitando qualche confusione nell'assemblea proprio prima della Comunione". Di qui il suggerimento di "limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino", per evitare il perpetuarsi di una situazione diventata in molte chiese un momento chiassoso, quasi un jamboree che avviene proprio appena prima della Comunione. Si è inoltre pensato a un possibile trasferimento del gesto a un altro momento della celebrazione. Il Papa ha domandato alla nostra Congregazione di fare delle proposte. E noi abbiamo organizzato una vasta consultazione i cui risultati sono stati inoltrati al Pontefice. Lo stesso, dopo aver studiato le sintesi, ci ha incaricati di scrivere alle Conferenze episcopali locali per chiedere loro di scegliere tra due possibilità di collocazione del segno della pace: lasciarlo dov'è, subito prima dell'Agnus Dei oppure anticiparlo tra la preghiera dei fedeli e l'offertorio.

E qual è stato il risultato di questa seconda consultazione?
Ancora non abbiamo ricevuto tutte le risposte. Contiamo di averle entro la fine di ottobre. Poi, alla fine del mese successivo, la nostra Congregazione farà il commento delle indicazioni ricevute e lo porterà al Papa per la decisione definitiva.

Nell'attuale sinodo si sta facendo strada l'idea di un "compendio della Parola" sulla scia di quelli analoghi del catechismo della Chiesa cattolica e della dottrina sociale. Anche in quello precedente era emersa una richiesta del genere in riferimento all'Eucaristia?
Il numero 93 della Sacramentum Caritatis parla dell'"utilità di un Compendio eucaristico" e Benedetto XVI ha voluto accogliere anche la richiesta avanzata dai padri sinodali per aiutare il popolo cristiano a credere, celebrare e vivere sempre meglio il mistero eucaristico. La nostra Congregazione è stata dunque chiamata in causa insieme a quella per la Dottrina della Fede.

Che cosa è stato fatto in concreto?
Al compendio stanno lavorando molti teologi, consultori e membri delle due Congregazioni. I lavori confluiranno in un libro che sarà suddiviso in varie parti: una sintesi della dottrina sull'Eucaristia, gli inni per la benedizione eucaristica, le ore di adorazione e le processioni eucaristiche; l'ufficio divino per Corpus et Sanguis Christi; le preghiere prima e dopo la messa, le preghiere dei santi a Gesù eucaristico, le preghiere per il sacerdote che si prepara alla messa; brani tratti dal magistero papale, dal Codice di Diritto canonico, dall'Imitazione di Cristo. Bisogna precisare che il compendio sarà proposto, non imposto. E posso anche affermare che non è lontana la sua pubblicazione.


Veniamo alla questione delle omelie tematiche. Non si corre il rischio di omologare la predicazione domenicale, di lasciare poco spazio alla riflessione individuale e all'approfondimento da parte del sacerdote?
Al contrario. Il Papa al numero 46 della Sacramentum Caritatis sottolinea la necessità di migliorare la qualità dell'omelia, che è parte dell'azione liturgica e ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli. Per questo i ministri ordinati devono prepararle accuratamente basandosi su una conoscenza adeguata della Scrittura. Il Pontefice a tal fine invita a evitare "omelie generiche o astratte" e chiede agli interessati di fare in modo che esse pongano la Parola di Dio proclamata in stretta relazione con la celebrazione sacramentale e con la vita della comunità. Da qui la richiesta di tener presente "lo scopo catechetico ed esortativo dell'omelia" e il richiamo dell'opportunità di proporre ai fedeli omelie tematiche che, partendo dal lezionario triennale, lungo l'anno liturgico, trattino i grandi temi della fede cristiana. Questi ultimi a loro volta devono fare riferimento a quanto proposto dal magistero nei quattro "pilastri" del Catechismo della Chiesa Cattolica e del suo compendio: professione della fede, celebrazione del mistero, vita in Cristo, preghiera cristiana.

Che cosa significa in pratica?
Il Sinodo del 2005 ha proposto la compilazione di temi per l'omelia domenicale in modo tale che in un ciclo di tre anni nessun grande argomento della nostra fede venga omesso. Il fatto è che non tutti i sacerdoti hanno un programma comprensivo per le omelie. E poi ci sono dei temi difficili o delicati o semplicemente che non piacciono, i quali non vengono mai toccati da alcuni predicatori. Il Papa ha perciò domandato a noi e alle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per il Clero di preparare un elenco. Non si tratterà di omelie-modello, ma di indicazioni generali in cui per ogni tema verranno forniti elementi per poterlo sviluppare.

A che punto è il lavoro?
Siamo quasi alla metà. E vorrei ribadire che, anche in questo caso, si tratterà di una proposta, non di un'imposizione per i predicatori. Si cercherà in ogni caso di rispettare la natura dell'omelia e i testi liturgici.


© L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2008

sabato 18 ottobre 2008

"LA RIFORMA DI BENEDETTO XVI", i cambiamenti al Culto Divino

di Andrea Tornielli
da "Il Giornale"

Non è sempre facile comprendere, nella selva delle dichiarazioni polemiche e delle semplificazioni giornalistiche, quale sia il vero messaggio che Benedetto XVI, con il suo esempio prima ancora che con la sua parola, intende dare alla Chiesa in merito alla celebrazione liturgica. Il ripristino della croce al centro dell’altare, il recupero di antichi paramenti e soprattutto la promulgazione del motu proprio che nel 2007 ha liberalizzato il rito preconciliare sono al centro di dibattiti e discussioni, spesso polarizzate in fronti opposti e non privi di coloriture estremistiche.
È quindi da salutare come una buona notizia l’uscita del libro di don Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI (Piemme, pp 128, 12 euro, il libreria da martedì), un volume agile e al tempo stesso denso e documentato, prefato da Vittorio Messori. Un libro che aiuta a «leggere» gli atti e iniziative liturgiche del pontificato ratzingeriano riportandole al loro significato più profondo, senza il quale si rischia di giudicarle come nostalgiche esteriorità da una parte, rivincite restauratrici dall’altra. Bux, teologo stimato dallo stesso Pontefice, esperto di teologia e liturgia orientali, spiega che «la natura della sacra liturgia è di essere il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo», non «qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa», bensì «il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa».
È stato il perdere di vista il suo profondo significato che ha fatto deformare il movimento liturgico post-conciliare, «sia per opera di chi considerava la novità sempre come la cosa migliore, sia per opera di chi voleva ripristinare l’antico come l’ottimo in ogni occasione». La decisione del Papa di ridare piena cittadinanza alla forma antica del rito romano, spiegando al tempo stesso che i due messali non appartengono a due riti diversi, «è una risposta a quanti, tradizionalisti e innovatori, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morte con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità: una vera e propria cesura!». Bux ricorda che il Papa, nella lettera inviata ai vescovi come accompagnamento del motu proprio, suggerisce (non obbliga) che quanti celebrano con l’antico messale celebrino anche con il nuovo: «Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso». Anche perché sarebbe paradossale che la messa culminante con l’eucaristia, sacramento dell’unità e della pace, «finisca per diventare segno di divisione, di discordia». A questo proposito don Bux osserva che «della litiurgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni gruppi tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global (vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari)».
È necessaria, insomma, una «riforma della riforma», che al contrario di quella postconciliare parta dal basso e non sia imposta dagli esperti, perché «se l’antica liturgia era un “affresco coperto”, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo». «La riforma liturgica – scrive il teologo – non è affatto perfetta e conclusa: c’è bisogno di correzioni e integrazioni, procedendo però in modo differente dal tempo postconciliare, non imponendo obblighi se non quelli necessari, illustrando le possibilità e promuovendo il dibattito». Lo scopo ultimo della liturgia è l’incontro con il mistero, la riscoperta di una nuova sensibilità, un adeguato spazio al sacro, al silenzio, all’ascolto, per evitare che la liturgia si trasformi – come purtroppo accade spesso – in «esibizione di attori e esondazione di parole».
Con il libro, essenziale ma davvero importante, Bux si propone di «aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell’uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell’unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l’esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico».

“La riforma di Benedetto XVI”, i cambiamenti al Culto Divino

di Andrea Tornielli
da "Il Giornale"

Non è sempre facile comprendere, nella selva delle dichiarazioni polemiche e delle semplificazioni giornalistiche, quale sia il vero messaggio che Benedetto XVI, con il suo esempio prima ancora che con la sua parola, intende dare alla Chiesa in merito alla celebrazione liturgica. Il ripristino della croce al centro dell’altare, il recupero di antichi paramenti e soprattutto la promulgazione del motu proprio che nel 2007 ha liberalizzato il rito preconciliare sono al centro di dibattiti e discussioni, spesso polarizzate in fronti opposti e non privi di coloriture estremistiche.
È quindi da salutare come una buona notizia l’uscita del libro di don Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI (Piemme, pp 128, 12 euro, il libreria da martedì), un volume agile e al tempo stesso denso e documentato, prefato da Vittorio Messori. Un libro che aiuta a «leggere» gli atti e iniziative liturgiche del pontificato ratzingeriano riportandole al loro significato più profondo, senza il quale si rischia di giudicarle come nostalgiche esteriorità da una parte, rivincite restauratrici dall’altra. Bux, teologo stimato dallo stesso Pontefice, esperto di teologia e liturgia orientali, spiega che «la natura della sacra liturgia è di essere il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo», non «qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa», bensì «il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa».
È stato il perdere di vista il suo profondo significato che ha fatto deformare il movimento liturgico post-conciliare, «sia per opera di chi considerava la novità sempre come la cosa migliore, sia per opera di chi voleva ripristinare l’antico come l’ottimo in ogni occasione». La decisione del Papa di ridare piena cittadinanza alla forma antica del rito romano, spiegando al tempo stesso che i due messali non appartengono a due riti diversi, «è una risposta a quanti, tradizionalisti e innovatori, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morte con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità: una vera e propria cesura!». Bux ricorda che il Papa, nella lettera inviata ai vescovi come accompagnamento del motu proprio, suggerisce (non obbliga) che quanti celebrano con l’antico messale celebrino anche con il nuovo: «Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso». Anche perché sarebbe paradossale che la messa culminante con l’eucaristia, sacramento dell’unità e della pace, «finisca per diventare segno di divisione, di discordia». A questo proposito don Bux osserva che «della litiurgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni gruppi tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global (vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari)».
È necessaria, insomma, una «riforma della riforma», che al contrario di quella postconciliare parta dal basso e non sia imposta dagli esperti, perché «se l’antica liturgia era un “affresco coperto”, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo». «La riforma liturgica – scrive il teologo – non è affatto perfetta e conclusa: c’è bisogno di correzioni e integrazioni, procedendo però in modo differente dal tempo postconciliare, non imponendo obblighi se non quelli necessari, illustrando le possibilità e promuovendo il dibattito». Lo scopo ultimo della liturgia è l’incontro con il mistero, la riscoperta di una nuova sensibilità, un adeguato spazio al sacro, al silenzio, all’ascolto, per evitare che la liturgia si trasformi – come purtroppo accade spesso – in «esibizione di attori e esondazione di parole».
Con il libro, essenziale ma davvero importante, Bux si propone di «aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell’uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell’unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l’esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico».

“La riforma di Benedetto XVI”, i cambiamenti al Culto Divino

di Andrea Tornielli
da "Il Giornale"

Non è sempre facile comprendere, nella selva delle dichiarazioni polemiche e delle semplificazioni giornalistiche, quale sia il vero messaggio che Benedetto XVI, con il suo esempio prima ancora che con la sua parola, intende dare alla Chiesa in merito alla celebrazione liturgica. Il ripristino della croce al centro dell’altare, il recupero di antichi paramenti e soprattutto la promulgazione del motu proprio che nel 2007 ha liberalizzato il rito preconciliare sono al centro di dibattiti e discussioni, spesso polarizzate in fronti opposti e non privi di coloriture estremistiche.
È quindi da salutare come una buona notizia l’uscita del libro di don Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI (Piemme, pp 128, 12 euro, il libreria da martedì), un volume agile e al tempo stesso denso e documentato, prefato da Vittorio Messori. Un libro che aiuta a «leggere» gli atti e iniziative liturgiche del pontificato ratzingeriano riportandole al loro significato più profondo, senza il quale si rischia di giudicarle come nostalgiche esteriorità da una parte, rivincite restauratrici dall’altra. Bux, teologo stimato dallo stesso Pontefice, esperto di teologia e liturgia orientali, spiega che «la natura della sacra liturgia è di essere il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo», non «qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa», bensì «il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa».
È stato il perdere di vista il suo profondo significato che ha fatto deformare il movimento liturgico post-conciliare, «sia per opera di chi considerava la novità sempre come la cosa migliore, sia per opera di chi voleva ripristinare l’antico come l’ottimo in ogni occasione». La decisione del Papa di ridare piena cittadinanza alla forma antica del rito romano, spiegando al tempo stesso che i due messali non appartengono a due riti diversi, «è una risposta a quanti, tradizionalisti e innovatori, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morte con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità: una vera e propria cesura!». Bux ricorda che il Papa, nella lettera inviata ai vescovi come accompagnamento del motu proprio, suggerisce (non obbliga) che quanti celebrano con l’antico messale celebrino anche con il nuovo: «Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso». Anche perché sarebbe paradossale che la messa culminante con l’eucaristia, sacramento dell’unità e della pace, «finisca per diventare segno di divisione, di discordia». A questo proposito don Bux osserva che «della litiurgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni gruppi tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global (vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari)».
È necessaria, insomma, una «riforma della riforma», che al contrario di quella postconciliare parta dal basso e non sia imposta dagli esperti, perché «se l’antica liturgia era un “affresco coperto”, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo». «La riforma liturgica – scrive il teologo – non è affatto perfetta e conclusa: c’è bisogno di correzioni e integrazioni, procedendo però in modo differente dal tempo postconciliare, non imponendo obblighi se non quelli necessari, illustrando le possibilità e promuovendo il dibattito». Lo scopo ultimo della liturgia è l’incontro con il mistero, la riscoperta di una nuova sensibilità, un adeguato spazio al sacro, al silenzio, all’ascolto, per evitare che la liturgia si trasformi – come purtroppo accade spesso – in «esibizione di attori e esondazione di parole».
Con il libro, essenziale ma davvero importante, Bux si propone di «aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell’uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell’unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l’esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico».