mercoledì 30 maggio 2007

Tertulliano

L’UDIENZA GENERALE , 30.05.2007

Tertulliano

Cari fratelli e sorelle,

con la catechesi di oggi riprendiamo il filo delle catechesi abbandonato in occasione del viaggio in Brasile e continuiamo a parlare delle grandi personalità della Chiesa antica: sono maestri della fede anche per noi oggi e testimoni della perenne attualità della fede cristiana. Oggi parliamo di un africano, Tertulliano, che tra la fine del secondo e l'inizio del terzo secolo inaugura la letteratura cristiana in lingua latina. Con lui comincia una teologia in tale lingua. La sua opera ha dato frutti decisivi, che sarebbe imperdonabile sottovalutare. Il suo influsso si sviluppa su diversi piani: da quelli del linguaggio e del recupero della cultura classica, a quelli dell'individuazione di una comune "anima cristiana" nel mondo e della formulazione di nuove proposte di convivenza umana. Non conosciamo con esattezza le date della sua nascita e della sua morte. Sappiamo invece che a Cartagine, verso la fine del II secolo, da genitori e da insegnanti pagani, ricevette una solida formazione retorica, filosofica, giuridica e storica. Si convertì poi al cristianesimo, attratto - come pare - dall'esempio dei martiri cristiani. Cominciò a pubblicare i suoi scritti più famosi nel 197. Ma una ricerca troppo individuale della verità insieme con le intemperanze del carattere — era un uomo rigoroso — lo condussero gradualmente a lasciare la comunione con la Chiesa e ad aderire alla setta del montanismo. Tuttavia, l’originalità del pensiero unita all’incisiva efficacia del linguaggio gli assicurano una posizione di spicco nella letteratura cristiana antica.

Sono famosi soprattutto i suoi scritti di carattere apologetico. Essi manifestano due intenti principali: quello di confutare le gravissime accuse che i pagani rivolgevano contro la nuova religione, e quello - più propositivo e missionario - di comunicare il messaggio del Vangelo in dialogo con la cultura del tempo. La sua opera più nota, l’Apologetico, denuncia il comportamento ingiusto delle autorità politiche verso la Chiesa; spiega e difende gli insegnamenti e i costumi dei cristiani; individua le differenze tra la nuova religione e le principali correnti filosofiche del tempo; manifesta il trionfo dello Spirito, che alla violenza dei persecutori oppone il sangue, la sofferenza e la pazienza dei martiri: "Per quanto raffinata - scrive l'Africano -, a nulla serve la vostra crudeltà: anzi, per la nostra comunità, essa è un invito. A ogni vostro colpo di falce diveniamo più numerosi: il sangue dei cristiani è una semina efficace! (semen est sanguis christianorum!)" (Apologetico 50,13). Il martirio, la sofferenza per la verità sono alla fine vittoriosi e più efficaci della crudeltà e della violenza dei regimi totalitari.

Ma Tertulliano, come ogni buon apologista, avverte nello stesso tempo l’esigenza di comunicare positivamente l’essenza del cristianesimo. Per questo egli adotta il metodo speculativo per illustrare i fondamenti razionali del dogma cristiano. Li approfondisce in maniera sistematica, a cominciare dalla descrizione del "Dio dei cristiani": "Quello che noi adoriamo - attesta l'Apologista - è un Dio unico". E prosegue, impiegando le antitesi e i paradossi caratteristici del suo linguaggio: "Egli è invisibile, anche se lo si vede; inafferrabile, anche se è presente attraverso la grazia; inconcepibile, anche se i sensi umani lo possono concepire; perciò è vero e grande!" (ibid., 17,1-2).

Tertulliano, inoltre, compie un passo enorme nello sviluppo del dogma trinitario; ci ha dato in latino il linguaggio adeguato per esprimere questo grande mistero, indrocucendo i termini "una sostanza" e "tre Persone". In modo simile, ha sviluppato molto anche il corretto linguaggio per esprimere il mistero di Cristo Figlio di Dio e vero Uomo.
L’Africano tratta anche dello Spirito Santo, dimostrandone il carattere personale e divino: "Crediamo che, secondo la sua promessa, Gesù Cristo inviò per mezzo del Padre lo Spirito Santo, il Paraclèto, il santificatore della fede di coloro che credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito" (ibid., 2,1). Ancora, nelle opere dell’Africano si leggono numerosi testi sulla Chiesa, che Tertulliano riconosce sempre come ‘madre’. Anche dopo la sua adesione al montanismo, egli non ha dimenticato che la Chiesa è la Madre della nostra fede e della nostra vita cristiana. Egli si sofferma pure sulla condotta morale dei cristiani e sulla vita futura. I suoi scritti sono importanti anche per cogliere tendenze vive nelle comunità cristiane riguardo a Maria santissima, ai sacramenti dell’Eucaristia, del Matrimonio e della Riconciliazione, al primato petrino, alla preghiera... In modo speciale, in quei tempi di persecuzione in cui i cristiani sembravano una minoranza perduta, l’Apologista li esorta alla speranza, che - stando ai suoi scritti - non è semplicemente una virtù a sé stante, ma una modalità che investe ogni aspetto dell’esistenza cristiana. Abbiamo la speranza che il futuro è nostro perché il futuro è di Dio. Così la risurrezione del Signore viene presentata come il fondamento della nostra futura risurrezione, e rappresenta l’oggetto principale della fiducia dei cristiani: "La carne risorgerà - afferma categoricamente l'Africano -: tutta la carne, proprio la carne, e la carne tutta intera. Dovunque si trovi, essa è in deposito presso Dio, in virtù del fedelissimo mediatore tra Dio e gli uomini Gesù Cristo, che restituirà Dio all’uomo e l’uomo a Dio" (Sulla risurrezione dei morti 63,1).

Dal punto di vista umano si può parlare senz’altro di un dramma di Tertulliano. Con il passare degli anni egli diventò sempre più esigente nei confronti dei cristiani. Pretendeva da loro in ogni circostanza, e soprattutto nelle persecuzioni, un comportamento eroico. Rigido nelle sue posizioni, non risparmiava critiche pesanti e inevitabilmente finì per trovarsi isolato. Del resto, anche oggi restano aperte molte questioni, non solo sul pensiero teologico e filosofico di Tertulliano, ma anche sul suo atteggiamento nei confronti delle istituzioni politiche e della società pagana.

A me fa molto pensare questa grande personalità morale e intellettuale, quest'uomo che ha dato un così grande contributo al pensiero cristiano. Si vede che alla fine gli manca la semplicità, l'umiltà di inserirsi nella Chiesa, di accettare le sue debolezze, di essere tollerante con gli altri e con se stesso. Quando si vede solo il proprio pensiero nella sua grandezza, alla fine è proprio questa grandezza che si perde. La caratteristica essenziale di un grande teologo è l'umiltà di stare con la Chiesa, di accettare le sue e le proprie debolezze, perché solo Dio è realmente tutto santo. Noi invece abbiamo sempre bisogno del perdono.

In definitiva, l’Africano rimane un testimone interessante dei primi tempi della Chiesa, quando i cristiani si trovarono ad essere autentici soggetti di "nuova cultura" nel confronto ravvicinato tra eredità classica e messaggio evangelico. E’ sua la celebre affermazione secondo cui la nostra anima "è naturaliter cristiana" (Apologetico 17,6), dove Tertulliano evoca la perenne continuità tra gli autentici valori umani e quelli cristiani; e anche quell’altra sua riflessione, mutuata direttamente dal Vangelo, secondo cui "il cristiano non può odiare nemmeno i propri nemici" (cfr Apologetico 37), dove il risvolto morale, ineludibile, della scelta di fede, propone la "non violenza" come regola di vita: e non è chi non veda la drammatica attualità di questo insegnamento, anche alla luce dell’acceso dibattito sulle religioni.

Negli scritti dell’Africano, insomma, si rintracciano numerosi temi che ancor oggi siamo chiamati ad affrontare. Essi ci coinvolgono in una feconda ricerca interiore, alla quale esorto tutti i fedeli, perché sappiano esprimere in maniera sempre più convincente la Regola della fede, quella - per tornare ancora una volta a Tertulliano – "secondo la quale noi crediamo che esiste un solo Dio, e nessun altro al di fuori del Creatore del mondo: egli ha tratto ogni cosa dal nulla per mezzo del suo Verbo, generato prima di tutte le cose" (La prescrizione degli eretici 13,1).

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mercoledì 2 maggio 2007

Origene Alessandrino

Origene Alessandrino Mercoledì 25 aprile 2007


Cari fratelli e sorelle, nelle nostre meditazioni sulle grandi personalità della Chiesa antica, ne conosciamo oggi ad una delle più rilevanti. Origene Alessandrino è realmente una delle personalità determinanti per tutto lo sviluppo del pensiero cristiano. Egli raccoglie l'eredità di Clemente Alessandrino, su cui abbiamo meditato mercoledì scorso, e la rilancia verso il futuro in maniera talmente innovativa, da imprimere una svolta irreversibile allo sviluppo del pensiero cristiano.

Fu un vero “maestro”, e così lo ricordavano con nostalgia e commozione i suoi allievi: non soltanto un brillante teologo, ma un testimone esemplare della dottrina che trasmetteva. “Egli insegnò”, scrive Eusebio di Cesarea, suo biografo entusiasta, “che la condotta deve corrispondere esattamente alla parola, e fu soprattutto per questo che, aiutato dalla grazia di Dio, indusse molti a imitarlo” (Hist. Eccl. 6,3,7).

Tutta la sua vita fu percorsa da un incessante anelito al martirio. Aveva diciassette anni quando, nel decimo anno dell’imperatore Settimio Severo, scoppiò ad Alessandria la persecuzione contro i cristiani. Clemente, suo maestro, abbandonò la città, e il padre di Origene, Leonide, venne gettato in carcere. Suo figlio bramava ardentemente il martirio, ma non poté realizzare questo desiderio. Allora scrisse al padre, esortandolo a non recedere dalla suprema testimonianza della fede. E quando Leonide venne decapitato, il piccolo Origene sentì che doveva accogliere l’esempio della sua vita. Quarant’anni più tardi, mentre predicava a Cesarea, uscì in questa confessione: “A nulla mi giova aver avuto un padre martire, se non tengo una buona condotta e non faccio onore alla nobiltà della mia stirpe, cioè al martirio di mio padre e alla testimonianza che l’ha reso illustre in Cristo” (Hom. Ez. 4,8).

In un’omelia successiva – quando, grazie all'estrema tolleranza dell’imperatore Filippo l’Arabo, sembrava ormai sfumata l’eventualità di una testimonianza cruenta – Origene esclama: “Se Dio mi concedesse di essere lavato nel mio sangue, così da ricevere il secondo battesimo avendo accettato la morte per Cristo, mi allontanerei sicuro da questo mondo... Ma sono beati coloro che meritano queste cose” (Hom. Iud. 7,12).

Queste espressioni rivelano tutta la nostalgia di Origene per il battesimo di sangue. E finalmente questo irresistibile anelito venne, almeno in parte, esaudito. Nel 250, durante la persecuzione di Decio, Origene fu arrestato e torturato crudelmente. Fiaccato dalle sofferenze subite, morì qualche anno dopo. Non aveva ancora settant’anni.

Abbiamo accennato a quella “svolta irreversibile” che Origene impresse alla storia della teologia e del pensiero cristiano. Ma in che cosa consiste questa “svolta”, questa novità così gravida di conseguenze? Essa corrisponde in sostanza alla fondazione della teologia nella spiegazione delle Scritture.

Far teologia era per lui essenzialmente spiegare, comprendere la Scrittura; o potremmo anche dire che la sua teologia è la perfetta simbiosi tra teologia ed esegesi.

In verità, la sigla propria della dottrina origeniana sembra risiedere appunto nell’incessante invito a passare dalla lettera allo spirito delle Scritture, per progredire nella conoscenza di Dio. E questo cosiddetto “allegorismo”, ha scritto von Balthasar, coincide precisamente “con lo sviluppo del dogma cristiano operato dall’insegnamento dei dottori della Chiesa”, i quali – in un modo o nell’altro – hanno accolto la “lezione” di Origene.

Così la Tradizione e il magistero, fondamento e garanzia della ricerca teologica, giungono a configurarsi come “Scrittura in atto” (cfr Origene: il mondo, Cristo e la Chiesa, tr. it., Milano 1972, p. 43). Possiamo affermare perciò che il nucleo centrale dell’immensa opera letteraria di Origene consiste nella sua “triplice lettura” della Bibbia.

Ma prima di illustrare questa “lettura” conviene dare uno sguardo complessivo alla produzione letteraria dell’Alessandrino. San Girolamo nella sua Epistola 33 elenca i titoli di 320 libri e di 310 omelie di Origene. Purtroppo la maggior parte di quest’opera è andata perduta, ma anche il poco che ne rimane fa di lui l’autore più prolifico dei primi tre secoli cristiani. Il suo raggio di interessi si estende dall’esegesi al dogma, alla filosofia, all’apologetica, all’ascetica e alla mistica. È una visione fondamentale e globale della vita cristiana.

Il nucleo ispiratore di quest’opera è, come abbiamo accennato, la “triplice lettura” delle Scritture sviluppata da Origene nell’arco della sua vita.

Con questa espressione intendiamo alludere alle tre modalità più importanti – tra loro non successive, anzi più spesso sovrapposte – con le quali Origene si è dedicato allo studio delle Scritture.

Anzitutto egli lesse la Bibbia con l’intento di accertarne al meglio il testo e di offrirne l'edizione più affidabile. Questo, ad esempio, è il primo passo: conoscere realmente che cosa sta scritto e conoscere che cosa questa scrittura voleva intenzionalmente e inizialmente dire. Ha fatto un grande studio a questo scopo ed ha redatto un'edizione della Bibbia con sei colonne parallele, da sinistra a destra, con il testo ebraico in caratteri ebraici — egli ha avuto anche contatti con i rabbini per capire bene il testo originale ebraico della Bibbia —, poi il testo ebraico traslitterato in caratteri greci e poi quattro traduzioni diverse in lingua greca, che gli permettevano di comparare le diverse possibilità di traduzione. Di qui il titolo di “Esapla” (“sei colonne”) attribuito a questa immane sinossi. Questo è il primo punto: conoscere esattamente che cosa sta scritto, il testo come tale.

In secondo luogo Origene lesse sistematicamente la Bibbia con i suoi celebri Commentari. Essi riproducono fedelmente le spiegazioni che il maestro offriva durante la scuola, ad Alessandria come a Cesarea. Origene procede quasi versetto per versetto, in forma minuziosa, ampia e approfondita, con note di carattere filologico e dottrinale. Egli lavora con grande esattezza per conoscere bene che cosa volevano dire i sacri autori.

Infine, anche prima della sua ordinazione presbiterale, Origene si dedicò moltissimo alla predicazione della Bibbia, adattandosi a un pubblico variamente composito. In ogni caso, si avverte anche nelle sue Omelie il maestro, tutto dedito all’interpretazione sistematica della pericope in esame, via via frazionata nei successivi versetti.

Anche nelle Omelie Origene coglie tutte le occasioni per richiamare le diverse dimensioni del senso della Sacra Scrittura, che aiutano o esprimono un cammino nella crescita della fede: c'è il senso “letterale”, ma esso nasconde profondità che non appaiono in un primo momento; la seconda dimensione è il senso “morale”: che cosa dobbiamo fare vivendo la parola; e infine il senso “spirituale”, cioè l'unità della Scrittura, che in tutto il suo sviluppo parla di Cristo.

È lo Spirito Santo che ci fa capire il contenuto cristologico e così l'unità della Scrittura nella sua diversità. Sarebbe interessante mostrare questo. Un po' ho tentato, nel mio libro "Gesù di Nazaret", di mostrare nella situazione di oggi queste molteplici dimensioni della Parola, della Sacra Scrittura, che prima deve essere rispettata proprio nel senso storico. Ma questo senso ci trascende verso Cristo, nella luce dello Spirito Santo, e ci mostra la via, come vivere. Se ne trova cenno, per esempio, nella nona Omelia sui Numeri, dove Origene paragona la Scrittura alle noci: “Così è la dottrina della Legge e dei Profeti alla scuola di Cristo”, afferma l'omileta; “amara è la lettera, che è come la scorza; in secondo luogo perverrai al guscio, che è la dottrina morale; in terzo luogo troverai il senso dei misteri, del quale si nutrono le anime dei santi nella vita presente e nella futura” (Hom. Num. 9,7).

Soprattutto per questa via Origene giunge a promuovere efficacemente la “lettura cristiana” dell’Antico Testamento, rintuzzando in maniera brillante la sfida di quegli eretici – soprattutto gnostici e marcioniti – che opponevano tra loro i due Testamenti fino a rigettare l’Antico.

A questo proposito, nella medesima Omelia sui Numeri l'Alessandrino afferma: “Io non chiamo la Legge un ‘Antico Testamento’, se la comprendo nello Spirito. La Legge diventa un ‘Antico Testamento’ solo per quelli che vogliono comprenderla carnalmente”, cioè fermandosi alla lettera del testo. Ma “per noi, che la comprendiamo e l’applichiamo nello Spirito e nel senso del Vangelo, la Legge è sempre nuova, e i due Testamenti sono per noi un nuovo Testamento, non a causa della data temporale, ma della novità del senso... Invece, per il peccatore e per quelli che non rispettano il patto della carità, anche i Vangeli invecchiano” (Hom. Num. 9,4).

Vi invito – e così concludo – ad accogliere nel vostro cuore l’insegnamento di questo grande maestro nella fede. Egli ci ricorda con intimo trasporto che, nella lettura orante della Scrittura e nel coerente impegno della vita, la Chiesa sempre si rinnova e ringiovanisce.

La Parola di Dio, che non invecchia mai, né mai si esaurisce, è mezzo privilegiato a tale scopo. È infatti la Parola di Dio che, per opera dello Spirito Santo, ci guida sempre di nuovo alla verità tutta intera (cfr Benedetto XVI, Ai partecipanti al Congresso Internazionale per il XL anniversario della Costituzione dogmatica Dei Verbum, in: Insegnamenti, vol. I, 2005, pp. 552-553). E preghiamo il Signore che ci dia oggi pensatori, teologi, esegeti che trovano questa multidimensionalità, questa attualità permanente della Sacra Scrittura, la sua novità per oggi. Preghiamo che il Signore ci aiuti a leggere in modo orante la Sacra Scrittura, a nutrirci realmente del vero pane della vita, della sua Parola.



Origene Alessandrino: il pensiero Mercoledì 2 maggio 2007


Cari fratelli e sorelle, la catechesi di mercoledì scorso era dedicata alla grande figura di Origene, dottore alessandrino del II-III secolo. In quella catechesi abbiamo preso in considerazione la vita e la produzione letteraria del grande maestro alessandrino, individuando nella "triplice lettura" della Bibbia, da lui condotta, il nucleo animatore di tutta la sua opera.

Ho lasciato da parte – per riprenderli oggi – due aspetti della dottrina origeniana, che considero tra i più importanti e attuali: intendo parlare dei suoi insegnamenti sulla preghiera e sulla Chiesa.

In verità Origene – autore di un importante e sempre attuale trattato "Sulla preghiera" – intreccia costantemente la sua produzione esegetica e teologica con esperienze e suggerimenti relativi all’orazione. Nonostante tutta la ricchezza teologica di pensiero, non è mai una trattazione puramente accademica; è sempre fondata sull'esperienza della preghiera, del contatto con Dio.

A suo parere, infatti, l’intelligenza delle Scritture richiede, più ancora che lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto che la via privilegiata per conoscere Dio è l’amore, e che non si dia un’autentica "scientia Christi" senza innamorarsi di Lui.

Nella Lettera a Gregorio Origene raccomanda: "Dedicati alla lectio delle divine Scritture; applicati a questo con perseveranza. Impegnati nella lectio con l’intenzione di credere e di piacere a Dio. Se durante la lectio ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa e te l’aprirà quel custode, del quale Gesù ha detto: 'Il guardiano gliela aprirà'. Applicandoti così alla lectio divina, cerca con lealtà e fiducia incrollabile in Dio il senso delle Scritture divine, che in esse si cela con grande ampiezza. Non ti devi però accontentare di bussare e di cercare: per comprendere le cose di Dio ti è assolutamente necessaria l'oratio. Proprio per esortarci ad essa il Salvatore ci ha detto non soltanto: 'Cercate e troverete', e 'Bussate e vi sarà aperto', ma ha aggiunto: 'Chiedete e riceverete'" (Ep. Gr. 4).

Balza subito agli occhi il "ruolo primordiale" svolto da Origene nella storia della lectio divina. Il Vescovo Ambrogio di Milano – che imparerà a leggere le Scritture dalle opere di Origene – la introduce poi in Occidente, per consegnarla ad Agostino e alla tradizione monastica successiva.

Come già abbiamo detto, il più alto livello della conoscenza di Dio, secondo Origene, scaturisce dall’amore. È così anche tra gli uomini: uno conosce realmente in profondità l'altro solo se c'è amore, se si aprono i cuori.

Per dimostrare questo egli si fonda su un significato dato talvolta al verbo conoscere in ebraico, quando cioè viene utilizzato per esprimere l’atto dell’amore umano: "Adamo conobbe Eva, sua sposa, la quale concepì" (Gn. 4,1). Così viene suggerito che l’unione nell’amore procura la conoscenza più autentica. Come l’uomo e la donna sono "due in una sola carne", così Dio e il credente diventano "due in uno stesso spirito". In questo modo la preghiera dell’Alessandrino approda ai livelli più alti della mistica, come è attestato dalle sue Omelie sul Cantico dei Cantici.

Viene a proposito un passaggio della prima Omelia, dove Origene confessa: "Spesso – Dio me ne è testimone – ho sentito che lo Sposo si accostava a me in massimo grado; dopo egli se ne andava all’improvviso, e io non potei trovare quello che cercavo. Nuovamente mi prende il desiderio della sua venuta, e talvolta egli torna, e quando mi è apparso, quando lo tengo tra le mani, ecco che ancora mi sfugge, e una volta che è svanito mi metto ancora a cercarlo..." (Hom. Cant. 1,7).

Torna alla mente ciò che il mio venerato predecessore scriveva, da autentico testimone, nella "Novo millennio ineunte", là dove egli mostrava ai fedeli "come la preghiera possa progredire, quale vero e proprio dialogo d’amore, fino a rendere la persona umana totalmente posseduta dall’Amato divino, vibrante al tocco dello Spirito, filialmente abbandonata nel cuore del Padre. [...] Si tratta – proseguiva Giovanni Paolo II – di un cammino interamente sostenuto dalla grazia, che chiede tuttavia forte impegno spirituale e conosce anche dolorose purificazioni, ma che approda, in diverse forme possibili, all’indicibile gioia vissuta dai mistici come unione sponsale" (n. 33).

Veniamo, infine, a un insegnamento di Origene sulla Chiesa, e precisamente – all’interno di essa – sul sacerdozio comune dei fedeli. Infatti, come l’Alessandrino afferma nella sua nona Omelia sul Levitico, "questo discorso riguarda tutti noi" (Hom. Lev. 9,1).

Nella medesima Omelia Origene – riferendosi al divieto fatto ad Aronne, dopo la morte dei suoi due figli, di entrare nel Sancta Sanctorum "in qualunque tempo" (Lv 16,2) – così ammonisce i fedeli: "Da ciò si dimostra che se uno entra a qualunque ora nel santuario, senza la dovuta preparazione, non rivestito degli indumenti pontificali, senza aver preparato le offerte prescritte ed essersi reso Dio propizio, morirà. [...] Questo discorso riguarda tutti noi. Ordina infatti che sappiamo come accedere all’altare di Dio. O non sai che anche a te, cioè a tutta la Chiesa di Dio e al popolo dei credenti, è stato conferito il sacerdozio? Ascolta come Pietro parla dei fedeli: ‘Stirpe eletta’, dice, ‘regale, sacerdotale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato’. Tu dunque hai il sacerdozio perché sei ‘stirpe sacerdotale’, e perciò devi offrire a Dio il sacrificio. [...] Ma perché tu lo possa offrire degnamente, hai bisogno di indumenti puri e distinti dagli indumenti comuni agli altri uomini, e ti è necessario il fuoco divino" (ivi).

Così da una parte i "fianchi cinti" e gli "indumenti sacerdotali", vale a dire la purezza e l’onestà della vita, dall’altra la "lucerna sempre accesa", cioè la fede e la scienza delle Scritture, si configurano come le condizioni indispensabili per l’esercizio del sacerdozio universale, che esige purezza e onestà di vita, fede e scienza delle Scritture.

A maggior ragione tali condizioni sono indispensabili, evidentemente, per l'esercizio del sacerdozio ministeriale. Queste condizioni – di integra condotta di vita, ma soprattutto di accoglienza e di studio della Parola – stabiliscono una vera e propria "gerarchia della santità" nel comune sacerdozio dei cristiani. Al vertice di questo cammino di perfezione Origene colloca il martirio.

Sempre nella nona Omelia sul Levitico egli allude al "fuoco per l'olocausto", cioè alla fede e alla scienza delle Scritture, che mai deve spegnersi sull’altare di chi esercita il sacerdozio. Poi aggiunge: "Ma ognuno di noi ha in sé" non soltanto il fuoco; ha "anche l’olocausto, e dal suo olocausto accende l'altare, perché arda sempre. Io, se rinuncio a tutto ciò che possiedo e prendo la mia croce e seguo Cristo, offro il mio olocausto sull’altare di Dio; e se consegnerò il mio corpo perché arda, avendo la carità, e conseguirò la gloria del martirio, offro il mio olocausto sull’altare di Dio" (Hom. Lev. 9,9).

Questo inesausto cammino di perfezione "riguarda tutti noi", purché "lo sguardo del nostro cuore" sia rivolto alla contemplazione della Sapienza e della Verità, che è Gesù Cristo.

Predicando sul discorso di Gesù a Nazaret – quando "gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui" (Lc 4,16-30) – Origene sembra rivolgersi proprio a noi: "Anche oggi, se lo volete, in questa assemblea i vostri occhi possono fissare il Salvatore. Quando infatti tu rivolgerai lo sguardo più profondo del cuore verso la contemplazione della Sapienza, della Verità e del Figlio unico di Dio, allora i tuoi occhi vedranno Dio. Felice assemblea, quella di cui la Scrittura attesta che gli occhi di tutti erano fissi su di lui! Quanto desidererei che questa assemblea ricevesse una simile testimonianza, che gli occhi di tutti, dei non battezzati e dei fedeli, delle donne, degli uomini e dei fanciulli, non gli occhi del corpo, ma quelli dell’anima, guardassero Gesù! […] Impressa su di noi è la luce del tuo volto, o Signore, a cui appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!" (Hom. Lc. 32,6).

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